Dal cantiere diagnostico al cantiere di risanamento: presenza di umidità nelle murature, risalita capillare, verifica e controllo dei risultati nel tempo.
L’importanza di raccogliere i dati dei beni culturali e pianificarne la manutenzione
«In Italia non esiste una norma che preveda la necessità di un monitoraggio continuo e di un’azione preventiva di controllo dei beni culturali al fine di evitare grandi interventi di restauro. Un grave limite, che costringe i tecnici ad attuare quella che loro chiamano “ricostruzione dell’unità potenziale dell’opera d’arte”». Significa, come teorizzato da Brandi nel Trattato di Restauro, che è possibile interpretare l’opera ripresentando tutto ciò che ne rimane di visibile nel modo migliore possibile. Senza la pretesa di una verità assoluta.
A sollevare il problema è Carlo Ostorero, professore aggregato in Recupero e Conservazione degli Edifici per il corso di laurea in Ingegneria Edile del Politecnico di Torino e referente scientifico del Partenariato universitario CNT-APPs.
Il tema è quantomai d’attualità. Il patrimonio artistico e storico italiano è vastissimo, ma continua a mancare un piano nazionale (fissato da un’opportuna norma) che stabilisca una programmazione delle diagnosi dei beni (pre e soprattutto post-intervento di risanamento) nonché sia in grado di raccogliere in un’unica banca dati centrale le indagini che, via via e nel tempo, vengono eseguite. «Spesso – prosegue Ostorero – si ha una conoscenza storica e archivistica del bene culturale, ma sappiamo poco del suo stato di salute e ogni volta che è necessario un intervento bisogna cominciare a eseguire le indagini e confrontarle con il progetto di manutenzione e di restauro partendo da zero, perché non esiste un database o una programmazione delle campagne diagnostiche di controllo sui beni culturali».
Avere fra le mani una documentazione che aiuti a stilare correttamente le pre-analisi del contesto è fondamentale. Anche e soprattutto quando si interviene nella risoluzione di problemi annosi come quelli legati all’umidità di risalita.
«Uno degli elementi principali che causa il deterioramento del bene culturale – prosegue il docente torinese – è proprio la presenza di umidità nelle murature. Conoscere è importante per intervenire, come dimostrano i casi pratici». Uno fra tutti, come spiega il docente, è quello che riguarda la Chiesa di San Bernardino a Santo Stefano Roero, in provincia di Cuneo. Si tratta di un manufatto del ‘700, che versava in condizioni critiche: l’intonaco non era più presente nella parte inferiore della struttura, interessata da fenomeni di risalita capillare. Il microclima particolare e un certo tipo di vegetazione presente nell’area acuivano i fenomeni di accumulo di umidità, la lentezza nell’asciugatura delle murature e il peggioramento della situazione in caso di pioggia. «In questo progetto – racconta Ostorero – è stato possibile fare una simulazione, assegnando ad alcune imprese un pre-capitolato, in modo che nel momento in cui il cantiere venisse avviato, non si presentassero difficoltà o nuove informazioni che avrebbero comportato dei cambiamenti rispetto alla scelta iniziale fatta in fase di progettazione». Un approccio vincente per il risultato finale, che è arrivato.
Un ultimo importante monito arriva dal docente del Politecnico di Torino. «Numerose sono le aziende che praticano e propongono dei sistemi di antagonismo alla risalita capillare – spiega -. Il problema è che questi sistemi vengono dichiarati efficienti, senza in realtà essere mai stati sottoposti ad una verifica a livello scientifico e prestazionale. Le uniche aziende che sino ad oggi hanno sottoposto la propria tecnologia al vaglio e al controllo delle università sono Leonardo Solutions e Domodry, quindi le uniche che utilizzano un sistema validato a livello scientifico quale il Metodo CNT».